È la coscienza della voce interiore o la voce del silenzio? È il Daimonion [1] ) di Socrate o il principio Buddhico? O il Cristo dimorante che dice di sé “Guarda, io sono con te sempre, anche fino alla fine del mondo” (Matt. 28, 20). In ogni caso, Virata [2] è preso da Lui, il “fratello eterno”.
Egli è al servizio di Re Rajputa ed è altamente rispettato come audace guerriero. Ognuno chiama Virata il “lampo della spada”. Lui non sa ancora che l’evoluzione umana in realtà riguarda il “raggio diamantino di lampo” (costanza, chiarezza, forza interiore e soprattutto impersonalità [3]). Finché non raggiunge questa intuizione, deve vivere e sopportare quattro grandi traumi.
Il fratricidio non intenzionale
Nella battaglia contro i rinnegati del suo re, Virata uccide non intenzionalmente suo fratello, il quale non sospettava di essere nel campo nemico. Di notte si imbatte nel corpo: “Gli occhi aperti dell’uomo ucciso rimanevano fissi e le loro pupille nere gli perforavano il cuore”. Virata quindi lasciò scivolare la sua spada dentro le acque del fiume e dichiarò al re:
“L’Invisibile mi ha mandato un messaggio e il mio cuore l’ha inteso. Ho ucciso mio fratello, che io possa adesso sapere che chiunque uccide un uomo, uccide suo fratello”.
Colui nella cui mente è entrato il concetto di riverenza per la vita, può riempire questi pensieri con amore e compassione, anche con entusiasmo.
Virata mostra la sua indomabile volontà di soddisfare i requisiti della vita e non i desideri del suo re o dei suoi compagni. Lui cerca la verità. Non ascoltare la sua voce interiore avrebbe significato agire contro il suo miglior giudizio. Tuttavia, gli occhi aperti dentro i quali guardò lo perseguiteranno per tutta la vita.
La domanda di Pilato (Giov. 18:37): “Cos’è la verità?” è spesso intesa come un’espressione di dubbio, come un’indicazione della limitata capacità umana di conoscere. Anche il Faust di Goethe rassegnato dichiara “…noi non possiamo conoscere niente”.
Ma come approcciamo la così detta verità? Non esiste una ricetta per questo e non esiste una cosa come la verità, perché essa si muove dentro noi e fuori di noi a ogni livello (periodo evolutivo) in un nuovo codice che è adattato allo stato di coscienza di quel livello. Però, c’è una conoscenza istintiva o preconscia di esistenze passate che formano il nostro carattere. È attraverso questo che Virata è sensibilizzato alla comunicazione dalla formazione cosmica delle idee: “…chiunque uccida un uomo…”
Tutti i misteri dell’universo giacciono latenti dentro di noi, tutti i suoi segreti vanno trovati dentro noi e ogni avanzamento nella saggezza e conoscenza esoterica non è che un dispiegamento di ciò che è già presente all’interno.[4] “Ma l’istinto stesso è la memoria psicoastrale “. [5]
L’impossibilità di un giudizio completamente giusto
Per non dover dimettere il nobile Virata, Rajputas gli affida l’ufficio di giudice supremo, che Virata svolge al meglio delle sue abilità. Lotta per almeno una notte su ogni verdetto e rifiuta la pena di morte per buoni motivi. La gente adesso lo chiama la “fonte della giustizia”.
Ma quando un uomo condannato, un pluriomicida, chiede la pena di morte piuttosto che sopportare la condanna di vivere in una prigione sotterranea ed essere flagellato ogni mese, Virata si trova a disagio. “Gli occhi dell’uomo mentre veniva trascinato via erano ferocemente fissi su di lui. E con un brivido divenne evidente nel cuore di Virata quanto fossero simili agli occhi di suo fratello morto”.
Virata osò sperimentare su se stesso essere al posto dell’uomo condannato nella prigione per un mese attraverso uno stratagemma. Viene flagellato e, testimonia la moglie del custode, “la sua fronte venne strofinata dolorosamente. E dalle bruciature del suo corpo lui conobbe il significato della sofferenza nella grazia della bontà”.
Inizialmente Virata ha esperienze luminose nell’oscurità della prigione, ma dopo sperimenta “mondi di orrore” al pensiero che l’uomo condannato avrebbe potuto non mantenere la sua promessa di consegnare una lettera al re dopo un mese.
Tuttavia egli viene rilasciato dalla prigione. Adesso vive in lui la certezza che un giudizio completamente giusto non è possibile a causa della nostra visione limitata. Si vergogna di essere chiamato uomo giusto e chiede al re il suo rilascio: “Vivrò la mia vita senza colpa”.
Virata capisce anche perché quegli occhi spalancati dell’uomo condannato lo spaventavano. Il suo passo coraggioso lo avvicina alla sua verità. Nessun uomo conosce la misura della sua forza morale finché sia messa alla prova.
Il Re Rajputas rispetta il desiderio di Virata. Adesso lui aiuta altri con consigli ed azioni e conquista nuova fama; il suo onorevole nome è adesso: “Campo di Consulenza”. Sei anni dopo, però, una brutta esperienza lo attende.
Il maltrattamento di uno schiavo da parte dei suoi figli
Una volta ancora Virata guarda negli occhi spalancati, pieni di paura, di un uomo tormentato. Profondamente scosso, passa una notte intera a cercare dentro di lui, prendendo anche nota di scritture e perviene alla conclusione che la libertà è il diritto più profondo dell’uomo. Chiede al “Dio dalle mille forme”: “Concedi che io possa riconoscere i messaggeri che tu mi mandi negli occhi eternamente accusatori del fratello eterno che mi incontra in tutti i luoghi, che vede con il mio sguardo e la cui sofferenza io soffro, che io possa percorrere la mia vita nella purezza e respirare senza colpa”.
Colui che tende alla luce sfida l’oscurità a resistere. La natura ha infiniti modi di ingannarci ed è anche lì per metterci alla prova.[6] L’intervento coraggioso di Virata è accolto con incomprensione dai suoi figli. Il loro egoismo e la loro avidità li fanno arrabbiare. Loro non percepiscono l’influenza delle forze oscure, lo “spirito di delusione e follia… Il vero diavolo è il giudizio umano insufficiente, che è sbagliato e sarà sempre sbagliato se vuole essere giusto di fronte allo Spirito.” [7]
Eremita
Il terzo sbaglio che lui sente profondamente porta Virata alla vita ipoteticamente innocente di un eremita. Informa il suo re, che va a fargli visita dopo un po’ di tempo nella sua capanna nella foresta, che niente ora è suo: “L’uomo senza dimora ha il mondo, l’uomo distaccato tutta la vita, l’uomo innocente la pace”.
La fama di Virata come santo si diffonde e parecchi padri di famiglia fanno lo stesso, sorge così “un accordo dei pii”. Virata è chiamato adesso la “Stella della Solitudine”. Siccome sente di un fratello deceduto, si dirige verso il villaggio vicino. Alla fine del villaggio guarda dentro gli occhi pieni di odio di una donna il cui marito la lasciò per seguire l’esempio di Virata. I suoi tre figli sono morti perché non avevano nulla da mangiare.
Virata “indietreggiò, poiché si sentiva come se avesse rivisto gli occhi sbarrati del fratello assassinato, dimenticato per anni”. Si inchina alla donna che lo accusa. “Tu dici il vero, e io vedo; c’è sempre più conoscenza di verità in un’esperienza dolorosa che in tutta la saggia serenità. Quello che so l’ho imparato dai miserabili, e quello che ho osservato mentalmente l’ho visto attraverso lo sguardo degli afflitti, lo sguardo del fratello eterno. Non un umile di Dio, come pensavo, ma un altezzoso sono stato: questo so per la tristezza che adesso soffro. (…) L’uomo solitario vive anche in tutti i suoi fratelli. Perdonami, donna! Tornerò dalla foresta, che Paratika (il marito della donna) possa anche tornare e risvegliare una nuova vita nel tuo grembo per quello che hai passato”.
Rinuncia alla sua vita da eremita, ritorna nella città e confessa al suo re: “Non con conoscenza ho fatto il male, sono fuggito dalla colpa ma il nostro piede è legato alla terra e la nostra azione alle Leggi Eterne. Anche l’inazione è un atto; io non potevo fuggire dagli occhi del Fratello Eterno su cui noi facciamo bene e male eternamente, contro la nostra volontà. Adesso voglio servire di nuovo. (…) Non voglio più essere libero dalla mia volontà. (…). Solo colui che serve è libero, chi dà la sua volontà ad un altro mette la sua forza in un lavoro senza chiedere. Solo il centro dell’atto è il nostro lavoro – il suo inizio e la sua fine, la sua causa e il suo funzionamento sono con gli dei”.
Nella Bhagavad-Gita Krishna dichiara:
Non è evitando ogni atto che uno è davvero libero dal fare, mai può uno essere libero da tutte le azioni, neanche per un momento (Canto terzo).
E ne La Voce del Silenzio viene detto:
Quando è necessaria la misericordia, l’inazione diventa un atto di peccato mortale. [8]
Ogni individualità ha un compito da adempiere. Spetta a ciascuno riconoscere il compito che gli è richiesto. Ciò che una persona deve sacrificare è un segreto che può essere rivelato solo a lei.[9] L’universo non può fare senza qualcuno, ha bisogno di tutti.
La storia di Virata termina in modo molto commovente. Convince il re ad assegnargli il lavoro più umile che c’è nel palazzo; prende su sé stesso il compito di essere il “guardiano dei cani nella stalla di fronte al palazzo”.
Stefan Zweig lascia aperta la questione se Virata raggiunge la più alta delle vie oppure se trova grazia davanti agli “occhi del fratello eterno”. Spetta al lettore indagare dentro sé stesso. Le altre persone hanno cominciato a dimenticare Virata. I cani, tuttavia, lo hanno amato più di chiunque del palazzo.
[1] Daimonion: l’ammonimento della voce interiore (della divinità) in Socrate
[2] Un re nell’epopea indiana Mahabharata
[3] H.P. Blavatsky si riferisce a quei tratti del carattere ne La Voce del Silenzio quando parla dell’anima di diamante.
[4] Gottfried de Purucker, Quelle des Okkultismus Band 1 (Fonte dell’Occultismo Vol.1), Theosophischer Verlag, 1990, p.23
[5] Gottfried de Purucker, Dialoge Band 5 (Dialoghi Vol. 5), Theosophische Gesellschaft, p.67
[6] Helena Petrovna Blavatsky, La Voce del Silenzio, Theosophical Universal Press, 1993
[7] Levi, Eliphas, Einweihungsbriefe in die Hohe Magie und Zahlenmystik, (Lettere di Iniziazione all’Alta Magia e al Misticismo dei Numeri), Ansata Verlag, 1990, p.81 e 82
[8] Helena Petrovna Blavatsky, op. cit.
[9] Albert Schweitzer, Kultur und Ethik in den Weltreligionen, Weltreligion (Cultura ed Etica nelle Religioni del Mondo), C.H. Beck Verlag