«C’è a sufficienza per tutti. Nessuno deve vivere nella miseria. Le persone non dovrebbero lavorare più duramente di quanto già fanno. Ci potrebbe essere più tempo per educazione e cultura, per esempio, o per altre belle cose. Dopo tutto, la sovrapproduzione sta già distruggendo il pianeta». Questa citazione tratta dal quotidiano tedesco Die Zeit indica un insieme di domande e problemi irrisolti, causati da fattori che variano dalle motivazioni personali, allo stile di vita, alla globalizzazione. Lasciando da parte le questioni di commercio globale e equità, noi potremmo – come membri della cosiddetta “classe media” – chiederci tranquillamente se non possiamo darci un taglio. Lavorare meno, consumare meno, avere più tempo, sì, per cosa?
Il continuo sfruttamento del nostro pianeta e il cambiamento climatico richiedono una risposta da parte di tutti. Una risposta potrebbe essere uno stile di vita auto-sufficiente, o di rinuncia, e soprattutto consumare meno. Non più un’auto nuova ogni cinque anni, non più l’ultimo modello di smartphone, non più montagne di vestiti, e lasciare l’auto in garage il più spesso possibile, magari viaggiare di meno, vivere più modestamente. I fatti sono ben noti, ma c’è poco interesse su questo argomento. È possibile che l’utopia del meno non vada troppo d’accordo con la spinta egoistica verso l’espansione. È anche possibile che non siamo idonei ad usare la libertà ottenuta dai tagli ai consumi. Lavorare meno: più tempo libero, meno pressione, tempo per noi stessi, poter finalmente leggere qualche libro, più tempo per la famiglia e gli amici, per lo sport, per le cose che contano.
In linea di principio, la maggior parte delle persone sarebbe d’accordo con questo. Ma in noi c’è fame di qualcosa di più, di grandezza, di superare le frontiere, che di solito si manifesta esclusivamente con mezzi materiali. L’umanità ha adottato l’atteggiamento di essere noi stessi la “corona della creazione”. Di conseguenza, usiamo, consumiamo e distruggiamo tutto su questo pianeta.
Tuttavia, sarebbe utile vedere noi stessi come figli di questo mondo, fatti della stessa materia di tutto il resto, dipendenti da tutti i complessi cicli di vita di questa natura. Si tratta di rispettare la natura come fonte della nostra vita, di affrontare lo spazio vuoto che emerge quando smettiamo di trattare la natura come un enorme ammasso di merce, quando svaniscono i desideri altrimenti velocemente convertiti in consumo e scarico. Ma poi? L’umanità affronta una sfida che può essere risolta solo spiritualmente, perché il problema è dentro noi stessi.
Non è senza ragione che molti maestri spirituali iniziano mettendo l’umanità davanti a una grande negazione. Il Buddismo è uno di questi insegnamenti. Considera ciò che chiamiamo “noi stessi” essenzialmente come il risultato dell’interazione tra forma (corpo), e percezioni sensoriali, sentimenti, volontà e coscienza. Lo adoriamo e nutriamo erroneamente come se fosse un sé eterno, costantemente alimentato di cose effimere. Buddha invita l’uomo a liberarsi da questo sé, affinché la verità possa rivelarsi in lui.
Questo è possibile solo quando la corsa al denaro, ai desideri e alla espansione egoista si ferma, almeno di tanto in tanto, e se si riesce a convivere con il conseguente vuoto che si sente dentro. Senza desideri o conoscenza – ma esplorando attentante le profondità degli impulsi più reconditi
Buddha dice: «La verità è la parte immortale della mente. La verità dona ai mortali la grazia dell’immortalità». Buddha si asteneva intenzionalmente dal fornire ricette facili per trovare questa verità, semplicemente perché è impossibile per la mente “elemosinare” qualcosa così totalmente fuori dalla portata della ragione.
La moderna Rosacroce confronta il sé temporale con un eterno – non ancora rivelato – sé. Chiunque voglia avvicinare il sé eterno è confrontato con il compito di premettere la totale calma interiore, portando gradualmente a riposo tutte le intenzioni, i desideri, le preoccupazioni e i pensieri. In questa quiete, l’essere mortale pone finalmente se stesso a disposizione di un nuovo processo, non come un esercizio, ma come il risultato di una profonda crescente conoscenza di sé, riconnettendosi finalmente con il nucleo recondito del nostro essere. Qui il temporale e l’eterno possono incontrarsi. Qui risiede la verità di cui parlava Buddha.
Cos’è questa verità? Non la si può esprimere in parole. Ma c’è una vita proveniente da questa verità che libera dai desideri e dai bisogni esteriori. Chiunque abbia trovato qualcosa di essa, assapora la libertà. E questa libertà cresce quando ne fai uso.
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[1] DIE ZEIT Nr. 52/2016, Seite 46, „Sehnsucht ohne Ort? Von wegen!“ von Mohamed Amjahid und Gero von Randow. Die oben zitierte Textstelle stammt von der Politikstudentin Laura Meschede
[2] Das Evangelium des Buddha, Reprint der Originalausgabe von 1894, o.O., o.J., Seite 3