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La fenomenologia di Husserl ebbe successo, ma non nel modo in cui egli avrebbe voluto. Attraverso il suo ex studente e amico Martin Heidegger ha generato l’esistenzialismo che, con Jean-Paul Sartre e Albert Camus, ha plasmato la generazione del secondo dopoguerra. Tuttavia, Heidegger e Sartre rifiutarono l’idea centrale dell’intenzionalità di Husserl, e le loro opinioni cupe e pessimistiche differiscono da quelle essenzialmente idealistiche di Husserl. In modi diversi, entrambi abbandonarono quello che Husserl, prendendo in prestito da Kant, chiamava “l’ego trascendentale. Cos’è questo ego?
È l'”arciere interiore” che scocca le frecce della percezione. Di solito non ne siamo consapevoli, ma il risultato della sua regia è il “mondo” che accettiamo ingenuamente come “dato” quando apriamo gli occhi. Husserl diceva che la vita di veglia dell’ego cosciente è un percepire, e ciò che percepiamo è il prodotto dell’intenzionalità dell’ego trascendentale. Accettiamo il mondo senza essere consapevoli del contributo che la nostra coscienza gli dà. Non siamo consapevoli del carattere essenzialmente attivo della nostra percezione, ma siamo coinvolti in quello che Husserl chiama il “punto di vista naturale”.
Questo non ha nulla a che fare con la natura; significa semplicemente il nostro solito modo di guardare e accettare passivamente il mondo come “là”. La fenomenologia per Husserl era un mezzo per impegnarsi e partecipare al lavoro attivo della coscienza che “intende” il mondo. Ne parlava quasi misticamente, riferendosi alle Madri nel Faust di Goethe e dei “Custodi delle Chiavi dell’Essere”. Questo ci ricorda che anche Goethe sviluppò una sorta di fenomenologia, che definì “visione attiva”, e che fondò il suo lavoro scientifico sulla morfologia, l’ottica e l’evoluzione delle piante sui risultati di questo tipo di “percezione dinamica”.
Ciò che Husserl intendeva con “i Custodi delle Chiavi dell’Essere”, può essere compreso da un’osservazione di Colin Wilson, il quale sviluppò un esistenzialismo “ottimista” basato sull’intenzionalità di Husserl. Wilson ha scritto che “c’è una volontà di percepire oltre alle percezioni”. Wilson credeva che le esperienze mistiche e di “illuminazione” avessero molto a che fare con il tipo di intenzionalità esplorata da Husserl e che fondamentalmente la nostra coscienza avesse molto più a che fare con il mondo che sperimentiamo di quanto comprendiamo. Capì che se cambiamo le nostre percezioni, cambia anche il mondo. Non molti nel mondo accademico seguirebbero Husserl così lontano, ma il filosofo Paul Ricoeur la pensava allo stesso modo di Wilson, anche se in modo più astratto.
Ricoeur definisce il “punto di vista naturale” di Husserl come “convinzione spontanea che il mondo che c’è è semplicemente dato”. Ma correggendosi attraverso le parentesi di Husserl, “la coscienza scopre di essere essa stessa a dare, dare senso”. La coscienza poi continua a vedere, ma “senza essere assorbita in questo vedere, senza perdersi in esso”. Ed ecco il punto centrale: “A vedere se stessi si scopre come fare, come produrre, sì, come disse Husserl, come creare”. Capiremmo Husserl, spiega Ricoeur, se “l’intenzionalità che culmina nel vedere fosse riconosciuta come una visione creativa”.
Non so che effetto abbia avuto questa osservazione di Ricoeur negli ambienti fenomenologici, ma quello che dice merita attenzione. I nostri atti di percezione sono atti creativi. Il mondo che vediamo non è ingenuamente lì, ma è portato all’esistenza dalla nostra percezione. La nostra consapevolezza è un “fare” non un “avere”, e il nostro compito, se scegliamo di accettarlo, è diventare più consapevoli di chi fa, cioè del nostro sé trascendentale che opera con l’intenzione di plasmare il mondo. Ciò impone alla nostra coscienza un’enorme responsabilità, che credo dovremmo accettare risolutamente.