“Sapete dove vanno i fantasmi in vacanza d’estate? Al Mar Morto, naturalmente”. Visto che siamo nella buona stagione, parliamo di risate. Non rivendicheremo un atteggiamento particolare sull’argomento, ma forniremo alcuni spunti di riflessione.
Anche nell’antichità le opinioni sul riso differivano. Platone, ad esempio, definisce la “gioia espressa” come una manifestazione del materiale in noi e, in questo senso, di ciò che è inferiore. Aristotele, invece, sostiene che il riso è qualcosa che ci distingue dal regno animale e lo definisce quindi un segno di intelligenza. La questione non è univoca nemmeno nella teologia e nella tradizione cristiana. Dapprima Clemente di Alessandria fornisce i due punti di vista fondamentali dei filosofi greci, poi Basilio Magno introduce il punto critico della moderazione: il riso e la gioia sono buoni, se moderati. Nel Medioevo, il riso era generalmente proibito negli statuti di alcuni degli ordini cattolici più popolari. Sulla base di testi del Nuovo Testamento, molti teologi discutono se si possa o meno ipotizzare che Gesù abbia riso.
Nel Nuovo Testamento vengono usate due parole ebraiche diverse per indicare il riso, una di tipo sereno e l’altra di tipo derisorio. C’è però un episodio particolarmente significativo nella Bibbia che, forse a nostra insaputa, ci dà indicazioni sul tema della risata. Il primogenito di Abramo, capostipite di Israele e delle principali religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo, islam), si chiamava Isacco. Questa parola significa proprio “risata”. Abramo ottiene questo figlio in età avanzata come promessa di Dio. Ma poco dopo, Dio gli dice di sacrificare proprio questo figlio e Abramo si prepara a farlo senza protestare.
Alcuni elementi fondamentali della Legge che Mosè diede a Israele sono simili a questo, come il sacrificio dei primogeniti. La parola usata nella traduzione inglese della Bibbia, tuttavia, è “offerta” a Dio, ed è molto più indicativa. L’idea dell’offerta del primogenito indica una sorta di consapevolezza: tutto ciò che pensiamo di avere a disposizione non è in realtà nostro. E non si tratta di cose, ma soprattutto di qualità. Nell’insieme, questo è ciò che gli animali simboleggiano nell’Antico Testamento, sia nella loro denominazione da parte di Adamo sia nell’Arca di Noè. Sembra che lo stesso valga per la nostra gioia. La collina su cui è diretto a sacrificare il figlio, dove viene fermato all’ultimo momento da un angelo, Abramo la chiama “il Signore provvederà”.
Siamo ancora esseri dualistici; non amiamo la sofferenza e amiamo molto la gioia. Molte delle nostre passioni e paure hanno origine qui. E riceviamo questo dono (della gioia e del riso) in modo troppo possessivo, contribuendo così al nostro isolamento e alla nostra separazione da Dio. Ma, come ci dicono i testi biblici, tutto viene da Dio ed è di Dio e dobbiamo esserne sempre consapevoli.
Ma c’è anche una gioia che deriva dall’apertura: la sensazione della pienezza del tutto. In un certo senso, trasformare la gioia dell’ego in un punto di ancoraggio crea un muro contro la possibilità di dimorare nella gioia della vita. Le due cose, tuttavia, sono incomparabili. Che tutti noi possiamo avvicinarci sempre di più alla beatitudine della completezza.