Vedere il Nuovo

Alcuni anni fa, dopo aver visitato a Parigi la mostra “L'America vista dall'Europa”, Italo Calvino commentò: “Scoprire il Nuovo Mondo era un'impresa ben difficile, come tutti sappiamo. Ma ancora più difficile, una volta scoperto il Nuovo Mondo, era “vederlo”, capire che era “nuovo”, tutto nuovo, diverso da tutto ciò che ci si era sempre aspettati di trovare come nuovo.

Vedere il Nuovo

E la domanda che viene naturale di farsi è: se un Nuovo Mondo venisse scoperto ora, lo sapremmo vedere? Sapremmo scartare dalla nostra mente tutte le immagini che siamo abituati ad associare all’aspettativa di un mondo diverso (quelle della fantascienza, per esempio) per cogliere la diversità vera che si presenterebbe ai nostri occhi?”

Si narra che i nativi americani non videro le caravelle di Colombo che stavano arrivando, poiché esse non facevano parte di ciò che essi erano abituati a vedere sopra le onde del mare. Che questo aneddoto sia autentico o solo supposto, possiamo sperimentare noi stessi ogni giorno che, quando accade qualcosa che si trova al di fuori di ciò che consideriamo verosimile, la nostra coscienza tende a non considerarlo.

La questione che Calvino pone non è dunque legata a un determinato evento accaduto in una certa epoca. Già Socrate per esempio si è certamente interrogato su come essere veramente aperti a ciò che ancora non conosciamo. Egli sosteneva infatti che “la saggezza comincia con la meraviglia”, quella capacità di stupirsi così tipica dei bambini, che sopravvive nell’età adulta solo se la nostra coscienza “sa di non sapere”, se non si lascia rinchiudere in gabbia dalla memoria delle esperienze passate e osserva il mondo intorno a noi con uno sguardo e un ascolto veramente aperti, potremmo dire “vergini”.
Se un Nuovo Mondo venisse scoperto ora, lo sapremmo vedere? Se una nuova epoca dell’umanità fosse iniziata, ce ne sapremmo accorgere? Sapremmo scartare dalla nostra mente tutte le immagini che siamo abituati ad associare all’aspettativa di un mondo diverso per cogliere la diversità vera che si presenterebbe ai nostri occhi?

Il nostro sguardo – oggi – non è certamente “vergine”, condizionato com’è dalle tante informazioni (verbali, visive, sonore, subliminali) che riceviamo ogni giorno-ora-minuto dai tanti media con cui siamo in contatto. Questo quasi ininterrotto flusso di informazioni crea in noi opinioni, congetture, pregiudizi (o anche solo semplici valutazioni), ci fa insomma “credere di sapere”.
Tutto ciò polarizza in modo sottile la nostra coscienza e ci spinge costantemente a prendere posizione, a schierarci pro o contro, mantenendoci in uno stato di perenne conflitto con qualcuno o con qualcosa, oggi per questo argomento, domani per quello. Siamo favorevoli o contrari? L’importante è avere un’opinione, ne va della nostra identità!
Ma credere di sapere non è sapere, e tantomeno conoscere.

Sapere e conoscere

In un magnifico libro ermetico sui Tarocchi un autore (che con grande umiltà preferisce restare anonimo) dice che i processi di conoscenza, quando sono completi, consistono in quattro fasi: intuizione, sapere, azione e trasmissione.
Intuisci tramite la percezione del cuore una certa realtà, coordini nella testa i suoi vari aspetti fino a fartene un quadro esauriente, pratichi nella vita il risultato della tua intuizione trasformata in sapere, e infine comunichi, diffondi.

Questo dovrebbe essere il processo ideale, quello che genera la “conoscenza”. Intuisci, rifletti, pratichi, diffondi. Quando anche solo uno di questi aspetti manca, la conoscenza che otteniamo non è completa – poiché non è veramente radicata in noi – e non sfugge all’usura del tempo.

La società moderna è fondamentalmente concentrata sul sapere intellettuale. Il sapere della mente è focalizzato sugli aspetti visibili dell’esistenza, quelli che appaiono in superficie, e si risolve molto sovente in un’accumulazione di dati, i quali vengono poi incrociati con altri dati fino a comporre, nella migliore delle ipotesi, un certo quadro d’insieme. Che però continua a parlare solo di ciò che appare in superficie.
Accumulando dati più o meno coerenti possiamo diventare “dotti”, ma non veri “sapienti” e tantomeno “saggi”. Inoltre, questi dati non hanno una vera attinenza con ciò che ciascuno di noi è nel profondo. Un computer ben strutturato può accumulare dati e metterli in relazione anche meglio di noi, come una certa branca della scienza sta affannandosi a dimostrare. Non può tuttavia minimamente affrontare temi come “l’origine e la funzione della vita”, che sono invece l’essenza della vera conoscenza.

Da un punto di vista strutturale molti elementi distinguono un essere umano da un computer, il più importante dei quali è sicuramente il cuore, con il suo battito vitale e i suoi contenuti sottili.
Il cuore umano – oltre alle sue funzioni biologiche – ha infatti tutta una serie di proprietà e qualità, una delle quali è l’intuizione. Ed è l’intuizione che guida la ricerca della “conoscenza che ci riguarda nel profondo”. È come un bisogno, una necessità vitale, che a un certo punto della nostra evoluzione personale ci afferra e ci spinge verso un nuovo modo di pensare, verso quelle specifiche conoscenze che sono funzionali al nostro autentico destino di esseri umani. In questo modo non si diventa dotti ma si comincia a sapere ciò che è essenziale sapere.

Poi occorre praticare.
Gli gnostici dei primi secoli d.C. sostenevano che la vera conoscenza consiste in “atti di conoscenza”, che assimili veramente una cosa solo nel momento in cui la pratichi, in cui puoi vedere la reale consistenza – i frutti – di ciò che hai pensato in teoria.

Infine, cosa saremmo tutti noi senza il contributo dei filosofi greci, solo per fare un esempio limitato alla nostra cara e vetusta Europa? Esseri umani che hanno indagato, e indagato, e indagato … e poi raccontato quello che avevano com-preso, quello che avevano “preso con sé” delle conoscenze ottenute.

Cuore, testa, pratica, relazione.
Questo percorso ci trasforma, generando in noi un nuovo stato vibratorio, che attira nel nostro sistema vitale una nuova intuizione, la quale si condensa in una riflessione più completa, che spinge poi a un’azione più matura e diviene un esempio vivente di una vera evoluzione. E via così, in una spirale virtuosa che fa onore al senso originario dell’essere umano: l’essere “humus”, terreno fertile.

Allora diveniamo progressivamente sempre più capaci di percepire il “nuovo”, poiché alla sicurezza della banca-dati del nostro cervello abbiamo sostituito la meraviglia per la scoperta del senso profondo della vita sulla Terra.

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Informazioni sull'articolo

Data: Dicembre 17, 2022
Autore / Autrice : Emiliano Bonifetto (Italy)
Photo: pexels-photo-879178-joao-jesus CCO

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